L’AI è un turbo, non una scorciatoia
C’è un fenomeno curioso che sto osservando sempre più spesso.
Professionisti di ogni livello — marketer, copywriter, sviluppatori — sembrano improvvisamente sollevati. L’AI ha alleggerito la fatica. Scrive mail in un attimo, compone pitch brillanti, genera codice “quasi funzionante”.
Tutto più veloce. Tutto più semplice.
Ma la domanda non è “quanto o cosa si può produrre con l’AI?”.
La vera domanda è: “Cosa succede a chi la usa male?”
Perché dietro questa corsa all’efficienza c’è un effetto collaterale sottovalutato:
la perdita progressiva della competenza.
Quando deleghi tutto troppo presto, smetti di allenarti.
Quando ti accontenti del primo draft generato, smetti di pensare.
E quando ti abitui a non pensare… cominci a dimenticare come si faceva.
Viviamo nel mito della velocità.
L’AI ha mantenuto la promessa: automatizzare compiti, comprimere tempi, semplificare flussi. Ma in cambio ci ha offerto una tentazione pericolosa: saltare i passaggi che ci formano.
La riflessione.
Il dubbio.
La revisione.
Quelli che non fanno rumore nel time tracking, ma che fanno la differenza tra un lavoro ben fatto e uno solo ben impacchettato.
Risultato?
Una nuova forma di creatività: lucida fuori, ma vuota dentro.
Una creatività che ottiene l’effetto giusto… senza sapere perché.
Una creatività pigra.
Alzi la mano chi ha mai ricevuto una risposta “AI generated” perfetta al primo colpo. (Immagino poche mani).
Eppure molti si accontentano. Prendono l’output, lo incollano, lo firmano.
Non c’è editing, non c’è giudizio. C’è solo una fiducia cieca in un sistema che, per sua natura, non ha idea di cosa stia dicendo. Il paradosso è che l’AI, se usata senza consapevolezza, non automatizza la competenza: automatizza l’errore.
Un report di Stanford HAI mostra che i modelli generici allucinano risposte legali in oltre il 58 % dei casi, con picchi all’82 % su prompt più complessi [1].
Ora, se nemmeno un avvocato può fidarsi completamente di un modello per un parere tecnico, perché dovremmo fidarci noi — senza alcuna verifica — per decidere la prossima campagna di comunicazione o l’architettura di un prodotto?
Sì, è vero: una consulenza legale ha impatti potenzialmente più gravi.
Ma anche un output apparentemente “innocuo” come:
“Scrivimi una strategia marketing in cinque bullet point”
può diventare un boomerang se applicato senza contesto, senza filtro, senza pensiero.
Un tone of voice sbagliato può danneggiare un brand.
Un posizionamento copiato da un altro settore può far perdere settimane di lavoro al team. Un’idea “data dall’AI” può sembrare originale, ma in realtà essere identica a quella di altri 10 competitor che hanno usato lo stesso prompt.
L’errore, anche se soft, si moltiplica quando non lo riconosci.
E il problema non è tanto l’allucinazione, quanto l’illusione:
che basti un prompt per diventare bravi.
Che basti copiare uno slide deck generato per poter dire “ho fatto strategia”.
Che l’AI abbia davvero “democratizzato” le competenze.
Ma i dati raccontano un’altra storia.
Il Future of Jobs Report 2025 ci dice che il 39 % delle competenze sul mercato cambierà entro i prossimi cinque anni, e che la stragrande maggioranza delle aziende investirà in formazione e riqualificazione urgente [2].
La verità è semplice, anche se un po’ scomoda: l’AI non ti rende più competitivo se non sai cosa stai facendo.
Non abbassa l’asticella: la sposta più in alto.
Ti obbliga a pensare meglio, a valutare di più, a distinguerti. E se non lo fai, non è che vieni aiutato…
vieni sostituito..
McKinsey stima che la generative AI potrà contribuire fino allo 0,6 % di crescita annuale della produttività globale [3].
È un numero interessante.
Ma ci obbliga a una domanda che pochi stanno facendo:
di che produttività stiamo parlando?
Vogliamo davvero un mondo dove la creatività diventa un processo industriale? Un flusso continuo di contenuti, testi, slide e codice “abbastanza buoni”, ma intercambiabili tra loro e tra professionisti?
O preferiamo una produttività che non ci annulla come individui, che lascia spazio alla voce personale, all’intuizione, alla visione?
Una produttività che non ci rende semplicemente più rapidi… ma più rilevanti?
Io punto senza esitazioni sulla seconda.
Ma per ottenerla, serve un cambio di passo. Non nei tool — nei criteri. Serve tornare a curare la qualità prima della quantità. A editare con attenzione chirurgica. A usare l’AI per raffinare la nostra idea, non per produrne una al volo.A trattare il prompt non come una bacchetta magica… ma come un atto di responsabilità.
L’intelligenza è aumentata. E adesso? L’AI è brillante.Ma non ha il tuo vissuto, la tua sensibilità, il tuo senso del contesto.
Sa sintetizzare, ma non scegliere.
Sa imitare, ma non creare davvero.
Per questo, delegare tutto è rischioso. Non tanto perché “l’AI sbaglia”, ma perché ci disabitua a pensare. E se smettiamo di pensare, il prezzo non sarà solo la qualità del nostro lavoro. Sarà la perdita della nostra voce professionale, della nostra identità creativa.
Un costo altissimo, che nessun risparmio di tempo potrà mai compensare..
Fonti:
1. Stanford HAI, “AI on Trial: Legal Models Hallucinate in 1 out of 6 Queries”, 23 mag 2024.
2. World Economic Forum, “Future of Jobs Report 2025”, 8 gen 2025.
3. McKinsey Global Institute, “The Economic Potential of Generative AI: The Next Productivity Frontier”, 14 giu 2023.
Spunti iniziali leggndo questi articoli:
MIT & Accenture, “The Productivity Effects of Generative AI: Evidence from a Field Experiment with GitHub Copilot”, 27 mar 2024.
GitHub Research, “Quantifying Copilot’s Impact on Developer Productivity and Happiness”, 2022.